Anni fa scoprii un poeta di inizio Novecento, Aldo Palazzeschi, rimanendo folgorato dalla poesia L’Incendiario per la sua irriverenza, la sua giocosità, la sua importante vena anarchica.
Una piazza. Al suo centro, una gabbia. Dentro, lui, l’incendiario. Attorno, come satelliti abbarbicati all’orbita d’un pianeta, una nebulosa di vociare scomposto, di accuse impietose, di pregiudizi, di disgusto. Di paura.
Il brusio è interrotto dall’arrivo d’un poeta che, invece, è ammaliato da quella figura e tesse le lodi dell’incendiario, innalzandolo ad inarrivabili vette di profondità e completezza divine.
L’incendiario non parla mai. Nessuno sa quale sia il suo punto di vista, le sue motivazioni, le sue speranze, la sua visione del mondo.
La mia poesia, Incendiario senza l’articolo determinativo, dona voce a quell’uomo rinchiuso nella gabbia, mutando, così, radicalmente il punto di osservazione del lettore: da quello focalizzato sull’esterna moltitudine di voci giudicanti si concentra sulla densità del pensiero dell’uomo solo contro il mostro del perbenismo, un punto estremamente denso posto al centro della gabbia: il cuore dell’universo.
Incendiario è, dunque, una riflessione sul nostro mondo e le sue leggi, scritte e non; è un atto di accusa verso le sbarre culturali dietro cui ci siamo volontariamente rinchiusi.
Che cosa vuole da me questo pazzo
omuncolo poeta da strapazzo?
Perché urla e inveisce sulla folla
che qui di fronte a me si aggira frolla?
Non voglio parlare, ma sol bruciare
quest’infame prigione secolare.
Maledetti! Trascinato in catene
m’avete in questa città, le vie piene
di fame e di ignoranza e solitudine,
di disperata e bieca moltitudine.
Io appartengo ai porti, alle notti scure,
all’assiolo solitario e alle alture.
Incendiario! Mi chiamano gli stolti,
piromane e assassino, disinvolti,
perché questo di me disse il prefetto,
di raccontar la verità in difetto.
Incendiario, ripetono dormendo
ma dai loro sogni destarli intendo
dando alle fiamme i loro materassi,
tirandoli per i piedi nei fossi.
Sveglia son io e calore terreno
il canto del bosco, richiamo osceno
la neve d’estate e il ringhio violento
che chiama ogni uomo all’arruolamento.
Tu! Omuncolo poeta ciarlone
odi queste parole silenziose:
apri la gabbia, rompi le catene,
ch’io possa incendiare le menti oziose
di quanti ancora non son nell’agone.
Tutti i diritti relativi alla poesia Incendiario sono riservati.
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