Che cosa vuole da me questo pazzo
omuncolo poeta da strapazzo?
Perché urla e inveisce sulla folla
che qui di fronte a me si aggira frolla?
Non voglio parlare, ma sol bruciare
quest’infame prigione secolare.
Maledetti! Trascinato in catene
m’avete in questa città, le vie piene
di fame e di ignoranza e solitudine,
di disperata e bieca moltitudine.
Io appartengo ai porti, alle notti scure,
all’assiolo solitario e alle alture.
Incendiario! Mi chiamano gli stolti,
piromane e assassino, disinvolti,
perché questo di me disse il prefetto,
di raccontar la verità in difetto.
Incendiario, ripetono dormendo
ma dai loro sogni destarli intendo
dando alle fiamme i loro materassi,
tirandoli per i piedi nei fossi.
Sveglia son io e calore terreno
il canto del bosco, richiamo osceno
la neve d’estate e il ringhio violento
che chiama ogni uomo all’arruolamento.
Tu! Omuncolo poeta ciarlone
odi queste parole silenziose:
apri la gabbia, rompi le catene,
ch’io possa incendiare le menti oziose
di quanti ancora non son nell’agone.
Avrei voluto scrivere un racconto breve basandomi sulla poesia di Palazzeschi “L’incendiario”, ma non ne uscivano fuori che rime e metrica definita. Così ho deciso di scrivere una poesia, che proseguisse nel solco, con le dovute differenze naturalmente, di quella del Palazzeschi, ma assumendo il punto di vista proprio dell’incendiario.
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